
26 May Spaced Working – Intervista a Elena D’Angeli
Intervista Elena D’Angeli, HR Specialist & IT Recruiter
Mi chiamo Elena D’Angeli, ho 26 anni e nella vita mi occupo di IT Recruiting.
A 18 anni sognavo di entrare in politica, a 23 mi trasferivo in Scozia e a 25 lavoravo in uno studio legale, senza poi troppa convinzione.
Il recruiting è arrivato come una sfida nella sfida. Mio padre sorridente mi disse: “sei preparata, fai sempre colloqui”.
Ebbene si, siamo la generazione dalle mille opportunità ma non dimentichiamoci che l’età media dei dipendenti aumenta progressivamente e i giovani oggi rappresentano una “minoranza”. E sebbene sia la normalità affrontare oggi tanti colloqui di lavoro, dall’altro lato aumenta spesso la frustrazione determinata dall’incertezza.
Così inizia il mio percorso di studi in HR, un po’ per rabbia e frustrazione unite ad una buona dose di umanità che mi ha spinta e mi spinge tuttora a credere che il ruolo delle risorse umane sia oggi un ruolo chiave e motore del cambiamento aziendale.
La sfida nella sfida arriva con il primo stage in IT Recruiting: qui scopro un mondo tutto nuovo, mi formo e cresco come professionista.
Eppure, non mi basta: continuo a credere di dover dare il mio contributo in modo differente.
Inizio ad interrogarmi su quante persone, non solo giovani, incontrino svariate forme di resistenza nell’accesso e nella permanenza nel mercato del lavoro: i migranti, i disabili, le donne (con il loro, spesso negato, diritto di fare gli stessi percorsi di carriera di un uomo) e tutti coloro che soffrono una propria condizione di diversità, più o meno marcata, più o meno evidente.
Così arriva il Diversity Management, alcuni studi sul tema fino all’incontro con Diversity Opportunity, dal quale nasce, prima, una partecipazione al Master in Diversity and Emotional Sustainability e poi una collaborazione ad eventi e progetti di ricerca.
Se il recruiting rappresentava la sfida nella sfida, la Diversity rappresenta oggi per me la cornice aperta al mio ruolo professionale. Aperta si, perché la diversity vuol dire contaminazione, condivisione e disponibilità ad ascoltare voci differenti e dargli un proprio spazio.
Non potrei occuparmi di Recruiting senza guardare alle persone come la chiave di un’organizzazione; non potrei svolgere la mia attività senza quella giusta dose di intelligenza emotiva, quella di cui dovrebbero oggi dotarsi le aziende, perché saper gestire le proprie emozioni e quelle altrui, favorisce la qualità delle relazioni con i “clienti” interni ed esterni, consente di affrontare sfide e cambiamenti con un atteggiamento positivo e soprattutto propositivo, che si traduce inevitabilmente in un acceleratore del business e dunque in un vantaggio competitivo.
È da questa intelligenza emotiva e da un DNA di diveristy che diamo vita a SPACED WORKING, ripartendo dai giovani, quelli citati all’inizio, i figli della crisi, i supereroi del digitale, dell’innovazione e di un modo completamente nuovo di concepire il lavoro come spazio-tempo.
Nasce il progetto SPACED WORKING, un’indagine che parte da me, giovane, figlia della crisi, della pandemia, di un nuovo modo di lavorare e concepire lo “spazio lavoro”. Parla di noi giovani che abbiamo fatto ingresso nel mondo del lavoro in modo anomalo, in un anno particolare ed estremamente complicato.
La ricerca sia qualitativa che quantitativa ha lo scopo di indagare il livello di soddisfazione e ingaggio dei neoassunti nel periodo 2020-2021 nonché gli strumenti (tutoring, forme di partecipazione collaborativa, piattaforme di comunicazione) che le aziende hanno adottato.
I cluster della diversity presi in considerazione sono quattro: genere, multiculturalità (da intendersi come diversi percorsi di studi e formazione), knowledge e mercato di appartenenza.
Attraverso la diffusione di questionari lato azienda e neoassunti ci si è posti l’obiettivo di aprire una riflessione sul cambiamento delle leve motivazionali e sulle aspettative del target di riferimento scelto.
Infine, abbiamo chiesto ai neoassunti di indicarci gli strumenti che la pandemia ha messo a disposizione delle aziende per ragionare insieme su quelli che vorremmo vedere riconfermati.
Cambia la gestione del tempo e del luogo di lavoro, aumenta la flessibilità e cresce il bisogno di trovare nuovi metodi comunicativi che siano efficaci e al tempo stesso inclusivi.
Le parole chiave dei primi risultati ricevuti sono: resilienza e flessibilità.
I giovani oggi sono più resilienti e hanno un approccio flessibile alla gestione del lavoro, sia in termini comunicativi che di tempi e luoghi.
Prendiamo solo ad esempio, tra gli altri, lo smart working: oggi per tanti di noi rappresenta un modo rivoluzionario e indispensabile per garantire il tante volte citato work life balance.
Per i neoassunti nel periodo preso a riferimento rappresenta oggi uno degli elementi di valutazione già durante la prima fase di selezione. I neoassunti si dicono in parte soddisfatti di questa flessibilità in entrata e guardano positivamente a forme flessibili di lavoro (l’88,2% afferma di volere confermata la flessibilità oraria, mentre il 70,6% afferma di volere una forma di full remote).
Infine, ciò che già emerge dalla ricerca è il bisogno di vedersi partecipi di forme di co-working (52,99%), campagne di sostenibilità e sociali (64,7%), e di vedere confermati progetti di valorizzazione della diversity (58,8%).
Interessanti i dati relativi alla presenza di sportelli di ascolto: la pandemia ci ha resi più fragili, senza dubbio, e le aziende iniziano a diventare i luoghi fisici e non dove sono sempre più richieste forme di supporto psicologico e di ascolto (il 35,3% risponde affermativamente).
A ciò va ad aggiungersi l’importanza per i neoassunti di ricevere formazione sulle soft skills (58,8%) scardinando la logica delle mere competenze tecniche.
Ciò che emerge è sempre più la necessità di guardare alle soggettività, con i loro bisogni, uscendo dalla mera logica di risorse umane intese come la sola forza produttiva al fine di ragionare sempre di più sul concetto di persona e pluralità culturale e di genere.
È solo attraverso politiche attive di Diversity Management che riusciamo a spostare l’attenzione manageriale sulle esigenze soggettive e sul potenziale di ogni dipendente, superando l’assunto che vede le risorse umane come insieme indifferenziato che partecipa collettivamente alla realizzazione delle performance aziendali.
La pandemia ci insegna proprio questo: esiste un legame tra la gestione delle diversità (e i neoassunti ne sono parte), presenti nell’organizzazione e la performance aziendale in un’ottica di valorizzazione, dove la corretta “gestione” e ascolto delle persone sono un elemento vincente per l’azienda.
Ragionare in termini di diversità ci permette di coniugare il binomio lavoro-efficienza organizzativa con il benessere delle persone e non può che realizzarsi con politiche interne idonee a supportare un corretto e sempre più inclusivo processo di recruiting che ha come fine ultimo l’incremento delle diversità della forza lavoro.
I neoassunti nel periodo preso a riferimento (quindi quello pandemico) rappresentano la diversità: lavoratori e lavoratrici che hanno saputo adattarsi, comunicare in modo differente, hanno conosciuto forme nuove di lavoro, e soprattutto hanno ben chiari gli strumenti e le condizioni cui non vogliono rinunciare in azienda.
Impariamo ad ascoltarli perché impariamo a comprendere le diversità e, valorizzarle non può che farci bene!
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